Posts written by Draven.

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    Draven Shaw

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    Nel porgerle quella domanda così personale aveva pensato solo all’esigenza di non creare silenzi imbarazzanti – anche se a lui il silenzio piaceva un sacco e, sperava, in cuor suo, che una volta presa confidenza con Christelle, ammesso che fosse successo, si sarebbe sentita a suo agio in silenzio con lui – e al fatto che, avendo lui proposto quell’incontro, non poteva restare inerme e aspettarsi che facesse tutto lei; tutti avevano bisogno di input per agire e, indipendentemente dalle circostanze, che fossero sociali o meno, almeno questo era arrivato a capirlo nel corso degli anni di crescita. Ma non aveva minimamente pensato che quella domanda potesse ritorcerglisi contro: quando il pensiero finalmente affiorò, con qualche secondo di ritardo di troppo – perché se gli fosse venuto prima, avrebbe ben pensato a farle un’altra domanda – rabbrividì.
    Il suono della voce di lei, per fortuna, interruppe il filo dei suoi pensieri e si accorse di essere rimasto a fissarla per tutto il tempo… Alla gente non piaceva il suo modo di guardare negli occhi, si sentivano silenziosamente messi in giudizio ed era l’ultima delle cose che voleva che lei potesse pensare in quel momento. Ed erano veramente tanto vicini, perché lui si era sporto in avanti verso di lei. Cercando di apparire il più naturale possibile, deviò per un attimo lo sguardo quando si portò una mano tra i capelli per scuoterli un po’, dato che sotto quel lenzuolo gli si stavano appiccicando alla fronte, e in un gesto che sorprese anche lui, ripiegò le ginocchia davanti al petto così da annullare il resto della distanza tra loro, per quanto concesso stando comunque seduti. Riprendendo a tenersi le gambe tra le braccia e il polso destro nella mano sinistra, quasi le poteva sfiorare le dita. Aveva sempre pensato che la mania degli adolescenti di tenersi per mano fosse una stupidaggine: chiuse entrambe le mani a pugno.
    Riportò lo sguardo su di lei, anche se la vide abbassare il suo poco dopo, e l’ascolto, cercando di non far trasparire lo shock all’idea di vivere in una casa così affollata; sembrava orribile, ai suoi occhi, che quando stava nel suo appartamento londinese a malapena tollerava il via vai di sua madre.
    Ad ogni modo, cercò di incamerare l’informazione perché non voleva fare in futuro brutte figure con lei per non essersi ricordato dei nonni, degli zii e degli ippogrifi, se mai in futuro fosse riemerso il discorso…
    Comunque, pensava veramente troppo ed era veramente troppo agitato se aveva già iniziato a schematizzarsi nella testa le eventualità di un futuro presumibilmente inesistente solo per arrivare, nell’eventualità, preparato psicologicamente.
    Sospirò e nell’incamerare di nuovo aria nei polmoni quasi rischiò di strozzarsi perché la tanto temuta domanda riflessa lo colpì come un pugno nello stomaco: non si era preparato una risposta, lei se ne aspettava una e doveva pensare in fretta, perché lei lo aveva distratto. Lo aveva mai distratto, prima d’ora, con altrettanta facilità? Doveva fare più attenzione.

    “Ehm… Vivo a Londra, a South Kensigton.” – in mezzo ai babbani, avrebbe aggiunto per argomentare, ma decise che non era per niente il momento adatto per confessarle la sua mezzosanguità. Continuava a nascondere quel dettaglio di sé come se fosse la cosa più sporca che avesse addosso e fosse costretto a portarla ogni giorno; non era tanto un problema del sangue babbano in sé, piuttosto di quel babbano in particolare. Ma non gliel’avrebbe mai detto. Doveva pensare in fretta a cos’altro dirle, però, perché lei gli aveva raccontato con estrema semplicità della sua famiglia…

    “Con mia madre. Siamo solo lei ed io. E mia nonna, materna, a volte… Ma lei preferisce che vada a Hogsmeade a casa sua.” – riprese velocemente a dire, sperando che quella scarna condivisione di informazioni fosse sufficiente. Ma non appena si zittì, continuando a fissarla – in quel suo dannatissimo modo carico di giudizio perché non sapeva come altro si dovessero guardare le persone – cercando di incrociare il suo sguardo di rimando, ebbe un’altra illuminazione: considerando che era partito senza idee per quell’incontro, non potè fare a meno di sentirsi un po’ orgoglioso per i riflessi della propria mente lucida, pronta a intervenire in suo soccorso.

    “E sto con Adeline, mia cugina, che dici di conoscere…” – disse semplicemente, lasciando appesa l’affermazione mentre le labbra si distendevano in un sorriso più furbesco, accentuando inevitabilmente le fossette sulle guance.


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    Edited by Draven Shaw - 26/6/2020, 02:25
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    Anche se non era il tipo da fare affidamento sulle parole, quelle di Christelle lo avevano messo improvvisamente un po’ più di buon umore e aveva capito in quel momento che, se avesse continuato a ripetersele nella mente, non le avrebbe dimenticate e lo avrebbero aiutato a portare avanti quel ‘qualsiasi cosa fosse che stavano facendo’. Sapere chiaro e tondo che voleva stare lì con lui, che addirittura aveva avuto premura di farsi più carina per lui – anche se era sempre bella – lo aiutavano a sentirsi meno inebetito davanti a lei; non di certo a suo agio, ma meno in imbarazzo. Voleva che continuasse a parlare, perché avrebbe in qualche modo riempito la distanza tra loro… E pensare che la prima volta che gli aveva rivolto la parola con quel suo modo saccente di fare aveva sperato per tutto il tempo di riuscire a zittirla. Non ci sarebbe mai riuscito per davvero, perché non era come le altre ragazze che aveva conosciuto, e non aveva mai sperato così tanto come in quel momento di sentirla parlare; data la scarsa propensione alla conversazione, era diventato bravo ad ascoltare. Ma non poteva dire di conoscerla ancora. Non voleva crearsi un’idea di lei basata su anni di occhiatacce: voleva una possibilità, anche solo una, per capire.
    Si inumidì di nuovo le labbra, forse per la decima volta in pochi secondi, perché quello era il suo modo di manifestare il nervosismo, e si impose di tenere il contatto visivo con lei. Mantenne un mesto sorriso nell’attesa di avviare quella loro vera e propria conoscenza, perché aveva visto dai suoi occhi che la rassicurava vederlo sorridere e voleva ricambiare il favore, facendola sentire un po’ più a suo agio.
    Ma non appena si decise a parlargli, si sentì improvvisamente di nuovo nervoso e quel tentativo di sorriderle con tranquillità emotiva gli sparì dal viso: poteva scegliere chissà quanti argomenti di conversazione, lei che era abituata ad averne, o avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa, tipo quelle stronzate sul colore o il cibo preferito, ma era partita da una domanda di cui sapeva già la risposta. Insomma… Lo aveva visto scappare davanti agli innumerevoli tentativi di sua sorella di mettersi con lui; lo aveva visto parlare al massimo con qualche concasato o durante le partite di quidditch; aveva assistito alla facilità con cui a Hogwarts parlavano di lui perché era sempre in disparte e appena gli succedeva qualcosa diventava, quindi, subito d’interesse comune. Se avesse avuto delle vere relazioni lo avrebbe saputo, a meno che non avesse mai prestato attenzione a lui al punto da accorgersene.

    “No.” – rispose secco, tirandosi indietro con la schiena e appoggiando le mani sul pavimento, ai lati dei propri fianchi. Non si distanziò da lei con l’intento di farlo, ma fu un gesto automatico; comunque, rimase a guardarla negli occhi senza mai abbassare lo sguardo.
    Avrebbe dovuto argomentare la risposta? Non sapeva che dirle, a parte chiarirle che quello con Isla non era stato proprio ‘un bacetto’, ma era meglio non dirle questo.
    Aveva avuto più ragazze nell’ultimo paio di anni, che nel resto della sua vita; se a Hogwarts, ad un certo punto, Isla gli aveva fatto campo minato intorno, a Londra era stata tutta un’altra cosa. Ma non aveva mai avuto una vera fidanzata… Non si era mai affezionato a nessuna da volerlo diventare e ogni sua ‘relazione’ era sempre finita prima di poter cominciare.
    Ma doveva dirle qualcosa o l’avrebbe rimessa di cattivo umore.

    “Tu?” – le chiese di getto, perché in quel breve lasso di tempo non gli era venuto nient’altro in mente da chiederle e aveva dovuto in tutti i modi spezzare il silenzio… Ma la conosceva la risposta a questa domanda riflessa e, sinceramente, non ne voleva conoscere i dettagli. Voleva sapere di lei, non delle sue esperienze con altri ragazzi.

    “No, cambio domanda…” – si affrettò, quindi, a dirle subito dopo. Tirò la testa indietro, sospirando, e corrucciò lo sguardo e arricciò le labbra in un’espressione concentrata che rivelò di nuovo le fossette sulle guance. Non voleva chiederle niente di banale, ma nemmeno qualcosa di troppo serio; gli serviva una via di mezzo che, non avendo termini di paragone con altre conversazioni di quel genere, non sapeva quale fosse. Fissando il soffitto, provò a rifletterci, ma gli venivano in mente solo stupidaggini o domande sulla scuola; poi, l’illuminazione improvvisa. Di lei, non sapeva proprio niente.

    “Da dove vieni? Dove stai, quando non sei a Hogwarts.” – le chiese, ributtandosi in avanti con la schiena. Abbassò le gambe piegate, quasi ad incrociarle in una postura simile alla sua che – involontariamente, ma piacevolmente – lo avvicinarono molto di più a lei.


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    Si tirò su le maniche del blazer fino ai gomiti, percependo con un moto di fastidio la camicia sotto esso stropicciarsi nel tentativo di rendersi invisibile. Quella temperatura di mezzo gli permetteva di sopportare anche il golfino che non aveva progettato di indossare nel ritorno verso Hogwarts, ma se avesse potuto scegliere, si sarebbe semplicemente tolto la camicia per mettersi al suo posto il golf. L’idea di essere disordinato e sporco aveva presumibilmente prevalso sulla decisione di coprirsi, ma ad essere del tutto onesti lo aveva fatto perché l’idea che l’ennesima ragazza lo vedesse come un oggetto sessuale ambulante gli faceva ribrezzo. Era un ragazzo atipico, sicuramente. Non disdegnava di certo il sesso o le belle ragazze… Ma era selettivo e tremendamente introspettivo, al punto che non si era mai lasciato andare con nessuna. La risata di scherno di Madeline gli fece subito capire che, purtroppo, si trovava davanti all’ennesima persona pronta a giudicarlo per i suoi modi di fare; che apparissero strani, scorbutici o arroganti non era una novità per lui e nemmeno gli interessava di ciò che pensavano le persone di lui… In proporzione all’asocialità, la maggior parte delle sue interazioni con il mondo gli erano del tutto indifferenti.
    Ignorò il suo divertimento.

    “Gli americani sono facilmente riconoscibili.” – iniziò a spiegarle, indicando prima sé stesso e poi lei, come a farle silenziosamente notare che già solo la scelta dei colori che indossavano in quel momento appartenevano a due mondi diversi.
    Non aveva mai visto nessuno di Hogwarts con uno stile estroverso quanto il suo, mentre l’Ilvermorny ne era piena. Le differenze culturali si notavano a vista d’occhio; non giudicava migliore l’uno o l’altro stile, era della dottrina del ‘ognuno fa – e in questo specifico caso – si veste con quello che gli pare’. Era un semplice dato di fatto.

    “No, non sei tu a darmi fastidio. Non mi piacciono le persone, preferisco stare per conto mio.” – rispose onestamente, facendo spallucce.

    “Gli inglesi sono schivi e suscettibili di indole, ma nella norma sono socievoli. Ti è solo andata male a conoscere me.” – proseguì poi, senza riuscire a trattenere uno sbuffo divertito, subito seguito da un mezzo sorriso che mostrò due fossette timide appena accennate sulle guance.

    “Ho visto gli avvisi all’Ilvermorny, comunque. Per questo l’ho chiesto… Se non vi piace questa zona dell’Inghilterra, non posso darvi torto. Piove quasi sempre e non fa mai particolarmente caldo, nemmeno quando c’è sole.” - riprese, tanto per approfondire il discorso. Quando all'inizio di gennaio gli era stato comunicato il temporaneo trasferimento alla scuola di Ilvermorny se n'era sentito offeso, ma una volta giunto lì la sua innata curiosità accademica aveva prevalso e, quando quel trasferimento era durato solo un paio di settimane, gli era dispiaciuto di essere dovuto tornare a Hogwarts senza saperne di più del posto.
    Ma il filo dei suoi pensieri - come sempre accadeva - venne interrotto dalla sua interlocutrice.

    "Questo?" - chiese, seguendo il suo sguardo e indicandosi sul petto il blasone dei Serpeverde. "E' il simbolo della mia casa di Hogwarts, Serpeverde. Avete simboli anche a Ilvermorny... Ho una divisa dei Thunderbird. Facciamo parte della stessa casa, praticamente... Ma sono stato nella tua scuola per sole due settimane."


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    Detestava il modo in cui lo faceva sentire impacciato e inetto ogni volta che si trovavano faccia a faccia o a parlare da soli, perché era evidente che per lei stare in mezzo alle persone era una cosa naturale, mentre per lui era l’esatto opposto, ma che al di là delle divergenze caratteriali abissali c’era qualcosa che la frenava; tirava su un muro di insolenza e aggressività che non avrebbe mai potuto sfondare con le proprie (in)capacità colloquiali e affettive. Non si era mai spinto a chiedere a una ragazza di uscire con lui, tanto meno assecondarla a infrangere le regole o a mettere da parte i compiti pur di imparare un maledetto incantesimo di disillusione: era tutto sbagliato… Ne valeva la pena?
    Il punto era che non si era mai dovuto spingere oltre i propri confini caratteriali, perché non aveva mai avuto quel tipo di interesse per qualcuno. Con le ragazze non c’era mai stato dialogo, non aveva mai avuto una vera relazione. Le uniche amicizie che aveva, si erano create nel tempo e senza forzature grazie a caratteri che, completamente opposti al proprio, lo avevano aiutato ad aprirsi un po’. Disinteressandosi dei rapporti sociali, si era sempre lasciato trascinare dai comportamenti altrui, decretando chi gli piaceva frequentare e chi no; ritrovarsi, invece, a fare il primo passo era maledettamente difficile. Aveva paura di toccarla, aveva paura di dire la cosa sbagliata, aveva addirittura paura di incrociare il suo sguardo. Quando mai era stato così vigliacco nella vita?
    Il cuore prese a battergli così forte nel petto che per un istante gli sembrò di non riuscire più a respirare. Non voleva più stare lì, non aveva senso… Ma no, invece. Era proprio dove doveva essere. Non poteva lasciarsi intimorire dai giochini psicologici e dalle stupide sfide che gli lanciava una ragazza per vedere fin dove si sarebbe spinto per lei. Se era questo il problema, glielo avrebbe dimostrato. Non si era mai tirato indietro davanti a nulla, perché provare e fallire era sempre meglio di rinunciare a prescindere… E lasciarsi andare al pensiero che non ne valeva la pena o che lasciarla stare sarebbe stata la cosa migliore, era sbagliato. Migliore per chi, poi? Isla? Se ne sarebbe fatta una ragione, era pure ora.
    Il fulmineo cambio di rotta dei suoi pensieri e, soprattutto, il flusso di coscienza – come spesso gli succedeva nei momenti depressivi – lo riportarono con i piedi per terra. Gli piaceva Christelle? Si. A tutto il resto ci avrebbe pensato a tempo debito.
    Di nuovo nervoso, ma per lo meno risoluto, lasciò il polso destro rimasto in ostaggio fino a quel momento delle sue dita pressanti, umettò le labbra e riportò lo sguardo ad incrociare quello di lei; mascella tesa, palpebre serrate, massima concentrazione.
    Fisso con lo sguardo di nuovo su di lei, si limitò ad ascoltarla, con un’espressione indecifrabile sul viso… Niente risposte a tono? Niente scatti d’ira?
    Aveva toccato il nervo scoperto. Il mattone che sorreggeva quel dannato muro che si metteva davanti per ripararsi da lui. Il pezzo del puzzle mancante.
    Era solo intimorita dalle circostanze… tanto quanto lo era lui.
    Egocentricamente, aveva dato per scontato che una persona così espansiva non potesse provare una simile emozione.
    Era anche parecchio confusa, ma di questo si sentì completamente responsabile, vista la poca chiarezza con la quale le parlava ogni volta… Un passo dopo l’altro, però. Sarebbe arrivato a migliorarsi anche nella comunicazione verbale. Prima o poi.
    Come ormai gli capitava in continuazione con lei, erano tante le cose che le avrebbe voluto dire: che non gli importava di quelle stupidaggini, che nemmeno lui era chissà quale esperto, anzi, tutt’altro; che se lo vedeva come uno scoiattolo spaventato gli faceva perdere ogni briciola di appetito sessuale; che se non sapeva lei come si facevano quelle cose, figuriamoci che ne poteva sapere lui, asociale com'era… Ma, come sempre, non disse niente. La lasciò in silenzio per qualche istante, con il proprio sguardo fisso sul suo viso mentre nella testa si godeva il fatto che avesse atteso per giorni quel momento insieme. E che si era fatta carina per lui.
    Era più che soddisfatto di quella risposta.

    “Di che vuoi parlare?” – furono le uniche parole che gli uscirono dalle labbra dopo l’ennesimo immenso silenzio, ma si aprì a un sorriso che diede mostra senza timidezza alle fossette sulle guance.

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    Prese a torcersi così nervosamente il polso destro nella mano, che nel momento che seguì quello scambio di battute gli sembrò di poter sentire il proprio flusso sanguigno passare da lì per raggiungere una qualche altra parte del proprio corpo… Era nervoso e ciò che aveva sperato di evitare, stava accadendo di nuovo, per l’ennesima volta: l’astio ingiustificato che portava di riflesso a una tensione altrettanto immotivata. Non riusciva a capacitarsene… Avevano due personalità difficili, questo era innegabile, ma c’era qualcosa che gli sfuggiva. Dare la colpa alla ‘situazione con Isla’ era la cosa più semplice a cui pensare e darla a lei nello specifico era la più ovvia, ma no; gli mancava un pezzo del puzzle, c’era qualcosa che non andava tra loro due e che non aveva niente a che fare con errori passati o interventi di terzi. E di quel passo, non sarebbe mai riuscito a capirla; ad ogni conversazione con lei aveva sempre avuto l’impressione di fare dieci passi indietro a ogni passo avanti. Ma era sempre capitato in situazioni anomale o casuali, stavolta era diverso… o meglio, aveva pensato che lo sarebbe stato.
    Più manteneva fisso lo sguardo su di lei, più col passare dei secondi gli sembrava che lei avrebbe preferito essere ovunque tranne lì. Non si era aspettato una risposta a quel ‘che hai?’, che era passato anche un po’ inosservato, e nello stesso modo aveva intuito che non poteva importargliene di meno della partita di quidditch, ma poi le aveva posto una domanda semplice, che era in suo diritto porre, soprattutto perché lei a caso aveva deciso di fargli una mezza confidenza e, invece, niente.
    Era stata male e non voleva dirlo? O era stata al San Mungo per qualcun altro e non se la sentiva di confessarglielo? Dava per scontato che avesse potuto conoscere Adeline al San Mungo, perché riteneva improbabile che potesse conoscerla dal Ministero o da altre vie. Era la cosa più logica da credere. Aveva nominato Hogsmeade, ma nemmeno l'aveva sentita... Come l’aveva conosciuta sua cugina? Anzi, riconosciuta? Non avevano niente in comune, se non il colore degli occhi – per meglio precisare, di un solo occhio di Adeline – e non condividevano nemmeno lo stesso cognome! Era ridicolo. Perché fargli sapere una cosa del genere se non aveva intenzione di parlarne? Ma soprattutto… Perché cazzo gli importava tanto?
    Si era soffermato a pensarci anche troppo.

    “Ok, lascia perdere.” – sentenziò, dopo quella che gli sembrò essere stata un’infinità passata in assoluto silenzio. L’espressione sul viso mutò; forse un velo di tristezza o di semplice rassegnazione, ma chinò la testa e abbassò lo sguardo, chiudendosi di nuovo nel proprio silenzio fatto di domande mentali che non le avrebbe mai posto.

    “Perché hai accettato di vederci, se non hai voglia di stare qui con me?” – capitolò all’improvviso, prima ancora che la domanda potesse infondersi tra i propri pensieri. Gli era venuta così, istintiva; un’ovvietà che la più intima e segreta parte di lui che percepiva la delusione di un fallimento annunciato e ignorato per qualsiasi cosa fosse quella che c’era con lei e che, per qualche motivo oscuro, si era convinto di dover e voler comprendere, aveva deciso di dover esternare ad alta voce. Così. Per quanto potesse valere, poi, averglielo chiesto… Dato che per essere una che parlava e sorrideva in continuazione con chiunque, sapeva sfoggiare mutismo e aggressività senza uguali, con lui.





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    Edited by Draven Shaw - 20/6/2020, 23:56
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    Il lenzuolo invisibile era abbastanza largo e lungo da tenerli entrambi nascosti comodamente sotto di esso senza essere visti, ma pretendere che quell’incantesimo di disillusione non si sarebbe incrinato o sgualcito al primo movimento brusco, sarebbe stato presuntuoso e incauto; così, per evitare che potesse accadere, lo aveva tenuto sollevato sopra di lei, per permetterle di accomodarsi senza avere qualche lembo tra i piedi e se l’era ritrovata molto vicina. Il lenzuolo le ricadeva morbido sulla schiena; non pensava le avrebbe dato fastidio, le dava aria e spazio, dato che si teneva alto e si sorreggeva sulla propria testa, oltretutto schiacciandogli un po’ i capelli in cima e lasciandogli visibile un solo ciuffo ribelle sulla fronte.
    Quando riportò le braccia intorno alle proprie gambe, stringendosi meccanicamente il polso destro con la mano sinistra, alzò lo sguardo su di lei: gli sembrò nervosa, forse agitata o a disagio. L’idea di quell’incontro gli era venuta proprio perché sperava di ovviare a quel senso di inadeguatezza e imbarazzo che si creava ogni volta che si trovavano insieme da soli… Stavolta non era stato un caso essersi incontrati, lo avevano deciso insieme e potevano migliorare la cosa – non sapeva proprio definire quel qualsiasi cosa fosse che c’era tra loro - ma non aveva idea del come.

    “Che hai?” – le chiese di getto, contemporaneamente a lei che disse qualcosa su sua cugina. Sul viso gli si formò un’inevitabile smorfia di scetticismo; corrucciò le sopracciglia e schiuse le labbra con stupore. La conosceva? Perché la conosceva? Era stata al San Mungo? In ospedale ci andavano i feriti gravi… Le era capitato qualcosa?
    Fu sul punto di chiederglielo quando – come capitava sempre, ogni volta che gli diceva qualcosa che per qualche istante lo zittiva e lo faceva chiudere nei propri ragionamenti – approfittò del temporaneo silenzio e riprese la parola.

    “Non sono nei guai, finché resto invisibile… E non volevo privarti della possibilità di prendermi in giro per la vittoria dei Grifondoro contro i Serpeverde… Conosci mia cugina?” – disse poi, distrattamente, tenendo ancora sul viso quell’espressione che, nel suo tipico e involontario modo di essere, s’indurì con stizza nell'attesa di una risposta.





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    Dopo la partita di Quidditch non era nemmeno passato in Sala Grande per la cena. Era a pezzi, voleva solo dormire e, considerando che aveva la sveglia impostata atipicamente per l’una e mezzo quella notte, aveva bisogno di recuperare energie. Erano stati giorni sfiancanti e ringraziava le regole scolastiche che prevedevano solo una, al massimo due partite in caso di pari punteggio, con la stessa squadra di una Casa, perché ogni anno contro i Grifondoro era estenuante.
    Una serie di cose, però, avevano influito su quella stanchezza.
    Tutto aveva avuto inizio esattamente una settimana prima, quando di ritorno dalla conversazione con Christelle ~ aveva passato le seguenti ore al campo ad allenarsi. Il custode, che non aveva voluto credere che avesse perso la cognizione del tempo e non si era reso conto che fosse passato il coprifuoco, lo aveva scortato passo passo fin dentro la scuola e quasi oltre la soglia nascosta nei sotterranei che conduceva nella Sala Comune di Serpeverde, dove aveva trovato i Prefetti e il Direttore della Casa ad aspettarlo. Solo in quel momento aveva realizzato di aver passato al campo molte più ore di quante avesse creduto… Ma se l’era cavata con un’ammonizione e la punizione di pulire la sala trofei a partire da lunedì e finché non l’avesse resa completamente lucida. Gli era sembrato esagerato, ma non si era ribellato alla decisione: aveva davanti a sé quattro corposissime ore di sonno prima del provino. Il sarcasmo gli impose di pensare che non sarebbe potuta andare meglio di così. Quando si infilò nel letto, però, si addormentò con il sorriso, perché le ultime ore di allenamento erano state decisamente fruttuose.
    Il giorno dopo, al suono della sveglia, aveva desiderato di morire all’istante o di giacere in quel letto a baldacchino per il resto della vita. La realtà di ciò che lo attendeva di lì a poco lo aveva colpito con una brutalità tale da lasciarlo senza fiato. Non aveva forze. Nel tempo che ci aveva messo a prepararsi, praticamente i suoi compagni di stanza si erano già catapultati a fare colazione in Sala Grande; non aveva idea di quanto sarebbe durato il provino, ma non aveva voglia di mangiare nulla e si era tenuto sul vago. I suoi amici più stretti, per così definirli, sapevano del provino di Quidditch, ma non sapevano quando ci sarebbe stato… Quindi, aveva atteso che la Sala Comune dei Serpeverde si fosse quasi del tutto svuotata per passare inosservato e poi aveva corso a perdifiato per raggiungere in orario il campo. Si era cambiato alla velocità della luce ed era uscito dallo spogliatoio giusto in tempo per veder arrivare colei che, una volta atterrata, si presentò come Theresa Hardy. Dopo averle stretto la mano e ascoltato le sue indicazioni…
    Un buco nero.
    Non aveva idea di quanto tempo fosse passato o di cosa avesse realmente fatto durante quel colloquio pratico, ma ad un certo punto gli era stato chiesto di fermarsi e scendere dalla scopa.

    “Le faremo sapere.” – gli aveva detto, stringendogli di nuovo la mano.
    E il resto della settimana, da quel momento in poi, era andato avanti più o meno con lo stesso offuscamento mentale.
    Lezioni, allenamenti in previsione della partita contro Grifondoro, lavoro da Ollivander, pulizia della Sala Trofei per punizione.
    Non aveva avuto il tempo di finire i compiti, cosa che gli metteva non poca ansia, ed era ben lungi dal rendere splendente la Sala Trofei, dato che ci si era dedicato troppo svogliatamente. Infine, come ciliegina sulla torta, non solo era passata una settimana dal provino e ancora nessuno gli aveva fatto sapere, ma durante la partita contro Grifondoro aveva giocato divinamente: non era entrata una singola pluffa nei suoi anelli. Nonostante la stanchezza mentale e fisica di quella settimana che lo aveva messo a dura prova, aveva eseguito una performance eccellente… E avevano perso, perché i Grifondoro erano stati più veloci a prendere il boccino d’oro.
    Una conclusione avvilente per una settimana avvilente.
    Dato che l’incontro con Christelle era stato decretato da lei all’una e mezza di quella notte, poteva non rientrare nel resto della terribile settimana appena passata; aveva deciso, quindi, di attribuire l’evento all’inizio di un fine settimana che non prometteva di essere il massimo, ma che – tenendo le dita incrociate – sarebbe almeno cominciato bene.
    Erano stati giorni talmente pieni e stressanti che non aveva avuto modo nemmeno di pensare a lei, a quello che si erano detti o a quell'incontro, sebbene durante le ore di lezione le avesse lanciato qualche occhiata e qualche rado sorriso di tanto in tanto.
    In quella baraonda di cose da fare, però, era riuscito a racimolarsi del tempo per praticare l’incantesimo di disillusione, necessario per l'appuntamento - se così lo si poteva definire.
    Quando giunse il fatidico momento, si alzò dal letto più sveglio e vigile di quanto avesse creduto di poter essere solo poche ore prima, quando la stanchezza lo avevano reso svogliato e avvilito. Eseguì l’incantesimo di disillusione sul lenzuolo e ci si nascose sotto, sia per raggiungere i bagni e darsi una sistemata senza essere beccato dai Prefetti, sia per raggiungere poi la meta dell’appuntamento: la torre di astronomia. Uno dei luoghi più distanti dai sotterranei che c’erano a Hogwarts. Aveva puntato la sveglia con mezz’ora di anticipo perché sapeva che gli ci sarebbe voluta una vita per arrivarci. Era certo che Christelle avesse scelto apposta quel luogo per metterlo in difficoltà.
    Non potendo accendere la bacchetta sotto quell’improvvisato e a malapena efficiente mantello dell’invisibilità, gli ci volle anche più del previsto… Ma raggiunse il punto d’incontro in perfetto orario.
    Si mise a sedere nell’insenatura tra le scale e l’ingresso all’aula di astronomia, sempre protetto dal lenzuolo disilluso, finché non la vide salire le scale verso di lui.
    Non sapeva dire cosa, di preciso, gli avesse dato determinate certezze con lei, ma nemmeno per una volta aveva preso in considerazione l'ipotesi che non si sarebbe presentata.

    “Vieni qua. Fai piano.” – le disse, spalancando un braccio per aprire la breccia protettiva creata dal lenzuolo incantato e potersi mostrare a lei. Non esordì con un tono brusco, ma nemmeno accogliente; dentro di lui era in atto un dissidio profondo, stava lottando tra il nervosismo per aver acconsentito di infrangere le regole della scuola per accontentare una ragazza – cosa che pensava che lui non avrebbe mai fatto – e l'inaspettata adrenalina, che lo faceva sentire su di giri e felice, per la situazione.

    “Mia cugina lavora al Ministero… Le ho chiesto di procurarmi un mantello dell’invisibilità per muovermi liberamente anche di notte in biblioteca e in guferia, ma sono tremendamente costosi e rari. Nell’attesa che riesca a trovarne uno, mi ha consigliato di imparare incantesimi di disillusione. Non credo che questo durerà più di un paio d’ore. È stato l’incantesimo più difficile che abbia mai eseguito. Ma meglio di niente…” – le spiegò subito, forse anticipando una domanda che non sarebbe mai arrivata. Fece spallucce e, con assoluta disinvoltura, le sistemò addosso il lenzuolo. Mentre si accomodava a sedere di fronte a lei, piegando le ginocchia che circondò con le braccia, accavallò una caviglia sull’altra in un equilibrio forse un po’ precario, ma che lo faceva stare comodo, e alzò lo sguardo a incrociare il suo.



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    Edited by Draven Shaw - 19/6/2020, 12:10
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    Lo sguardo feroce di Christelle non lo aiutava a sentirsi più tranquillo. Si trovò inevitabilmente a chiedersi, nel silenzioso segreto che era un angolo recondito della propria mente, perché non avesse scelto Isla; sarebbe stato facile come bere un bicchiere d’acqua con lei, considerando che nel corso di quei mesi in cui aveva tentato ogni tipo di approccio con lui gli aveva dato più volte modo di pensare che sarebbe anche riuscito ad andarci a letto senza troppi problemi, anzi, durante quelle volte gli aveva lasciato intendere proprio quello… Ma no. A lui piaceva l’altra sorella. Quella strana e solare, super socievole e competitiva, agguerrita e femminista, arrogante e fiera…
    Le labbra gli si curvarono in un mesto sorriso, con le fossette che si accentuarono timidamente sulle guance in risposta a quel movimento facciale a cui erano poco abituate. Nemmeno i suoi scatti nervosi riuscirono a destarlo da quel ritrovato e improvviso senso di benessere: perché gliel’aveva chiesto, ci era riuscito. A dirla tutta, non le aveva nemmeno posto l’ipotesi a mo di domanda, le aveva semplicemente detto, con fermezza, di uscire con lui. E qualcosa, dentro di sé, gli dava la sicurezza che non gli avrebbe detto di no. Se non lo aveva rifiutato prima, non lo avrebbe rifiutato ora. Nonostante tutto, quella possibilità, ammesso pure che sarebbe rimasta unica e isolata, se la meritavano e lo credeva anche lei, ci avrebbe giurato.
    Rimase immobile e in silenzio, in attesa, lasciandole il tempo di sfogarsi e decidere il da farsi. Alle sue parole, reagì d’istinto accentuando il sorriso e le annuì.

    “Certo. Venerdì prossimo, torre di astronomia, due di notte.” – rispose senza alcuna esitazione e ripetendo i suoi ‘ordini’ per farle capire che sì, aveva capito benissimo. Fece spallucce e, ancora con il sorriso sulle labbra, si voltò senza dire altro. Doveva tornare al campo da quidditch a recuperare le sue cose… e solo quando si trovò abbastanza distante da lei da non riconoscerla più, immersa tra gli altri studenti al parco, si fermò di botto, realizzando cosa fosse appena successo: lo aveva sfidato a uscire dal dormitorio alle due di notte.
    Andare in giro di notte a Hogwarts.
    Era contro le regole.


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    Nel momento in cui riacquistò il proprio spazio vitale ed ebbe modo di sistemarsi a un’adeguata distanza da lei, che non fosse né troppo scortese né troppo formale, ma amichevole al punto giusto, solo da non essere ambigua, si sentì un po’ meglio. Il modo in cui le ragazze a Hogwarts lo guardavano, quasi bramose, e il fatto che alcune provassero ad avere contatti fisici in maniera esplicita con lui, lo aveva portato a sopportare poco – anzi, ancor meno di quanto il suo carattere e la sua indole lo avessero sempre portato a fare – le ragazze troppo esuberanti o espansive; non aveva mai capito come confrontarsi con quelle personalità così diverse dalla propria e, banalmente, aveva capito che trattandole male o ignorandole riusciva a evitarle. Non era di certo una caratteristica di cui andare fieri, ma per lui era diventata una cosa naturale… Il fatto che non avesse allontanato di malagrazia Madeline fu solo perché da lei non aveva percepito… come definirle… intenzioni maliziose? Era una ragazza istrionica, sicuramente esuberante, certo, ma non fastidiosa come le ragazze di Hogwarts. Molto semplicemente: non aveva percepito secondi fini in quell’abbraccio. Continuare a parlare con lei fu solo d’aiuto a metterlo più a suo agio, dandogli conferma delle proprie sensazioni.
    Vide chiaramente che il racconto della ragazza figlia di un inferius – com’era solito definirla nei vari racconti su di lei o quando, disgraziatamente, gli era capitato di incrociarla nei corridoi della scuola – aveva fatto il suo dovere; con chiunque parlasse di quella storia, si era sempre trovato davanti al dato di fatto sconcertante che nessuno aveva mai avuto un’esperienza così spiacevole. Non aveva nemmeno esitato, prima di raccontarle quell'aneddoto perché aveva subito capito che avrebbe aiutato la situazione e, alle sue parole di risposta, gli venne addirittura da sorridere.

    “In realtà, credo che ad un certo punto abbia iniziato un po’ a divertirmi, perché erano troppo fuori le righe, esagerati nelle loro lamentele. È stato difficile tollerare le manine della bambina che si muovevano come una pianta tentaculus sugli scaffali, ma quando alla fine ha trovato la sua bacchetta era felice e mi ha addirittura ringraziato. Quindi…” – disse, concludendo con una scrollata di spalle, come a dire che alla fine, in qualche modo, l’importante era aver raggiunto l’obiettivo nella giusta maniera.
    Quando si voltò per incrociare il suo sguardo, la vide rivolta verso di lui a guardarlo addosso, quasi gli fosse comparsa sul petto una scritta lampeggiante e si accorse che sul punto in cui lei aveva affondato il viso c’era una chiazza bagnata che aveva reso un po’ troppo trasparente la camicia.

    “Oh…” – commentò, sorpreso e stizzito alle stesso tempo. Si fermò in mezzo alla strada e prese il golfino grigio con il blasone verde-argento dalla borsa scolastica e se lo infilò. Faceva caldo, ma non al punto da rendere intollerabile quello strato in più.

    “Come mai non si vedono molti di voi americani in giro per queste strade? Ci sono un sacco di annunci per le uscite settimanali a Hogsmeade e Diagon Alley, ma sei la prima che incontro.” – commentò poi, come se fosse del tutto naturale – e in effetti per lui lo era – darle solo la possibilità di sognarselo il proprio petto nudo definito e le spalle larghe. Preferiva morire di caldo. Si tirò su le maniche però, prima di rimettersi a tracolla la borsa scolastica e riportare le mani nelle tasche dei pantaloni. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, sulla strada, mentre riprese a camminare al suo fianco, forse con un'espressione sul viso un po' meno amichevole... D'impatto gli aveva fatto simpatia, non voleva doversi ricredere su di lei.


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    Con la scusa di riprendere fiato, rimase leggermente chino su sé stesso e a sguardo basso; si disse che poteva concedersi qualche secondo di vantaggio per riflettere sulla prossima mossa, prima della reazione di Christelle che, per qualche motivo a lui oscuro, esitò ad arrivare. Si rese conto in quel fatidico momento che era più spaventosa quando faceva la stizzita e la riflessiva… Si era abituato, ormai, a una Christelle un po’ isterica e impulsiva, ma il nervosismo e la presumibile confusione del momento dovevano aver portato un cambio d’umore e, di conseguenza, di atteggiamento parecchio netto anche in lei. Non poteva di certo pretendere di essere l’unico al mondo a provare emozioni contrastanti e a esternarle in atteggiamenti altrettanto discordanti… Oltretutto, con le donne sapeva di camminare su un terreno pericoloso che non aveva mai gestito con la giusta attenzione; sua nonna, da ragazzino, gli aveva detto spesso che le donne sono come la trappola del diavolo, che se le istighi troppo, poi, finiscono per lasciarti senza fiato. Non era mai riuscito a mettersi di fronte a una realtà che desse senso a quell’analogia, ma il fiato ancora un po’ corto e lo sguardo adirato di Christelle, quando finalmente si decise a rialzare il proprio, gli fecero finalmente capire il senso di quelle sagge parole.
    Al suono della sua voce si ridestò dal filo dei propri pensieri e non riuscì a trattenere una lieve smorfia sul viso; non era la persona più disponibile del mondo e, anzi, provava una certa soddisfazione personale nell’allontanare le persone con quel suo modo di fare, come se fosse in grado di incutere timore, forse addirittura reverenza… ma farlo con lei, almeno stavolta, gli aveva dato solo tachicardia e dolore allo stomaco. Sensi di colpa? Forse…
    Ad ogni modo, non riuscì a trovare niente da dirle per controbattere, perché in cuor suo sapeva che aveva ragione. Un po’ stronzo lo era.

    “Lo so che ho fatto un sacco di casini, ma possiamo…” – iniziò a dirle poi, ma le sue parole seguenti lo paralizzarono sul posto e la voce gli si bloccò in gola. Si tappò le orecchie non appena le sentì pronunciare la parola ‘provino’ per timore di ascoltare il seguito di quella frase e chiuse gli occhi, strizzando forte le palpebre.

    “No, zitta! Non dirlo, cazzo, non dirlo, zitta!” – cominciò a dire ad alta voce, in un modo quasi isterico e quasi degno dei suoi scatti d’ira, ma con un tono talmente imperativo e cupo da rendersi immediatamente conto di aver fatto di nuovo lo stronzo con lei.

    “Non… Mi dispiace. Puoi dire quello che vuoi. È… solo scaramanzia. Ecco…” – cercò di dire subito dopo, riportando lo sguardo su di lei, con un’espressione sul viso del tutto diversa, tra il dispiaciuto e il frustrato, perché la comunicazione non era per niente il suo forte. Ci avrebbe lavorato.
    Deglutì faticosamente, era agitato e la camicia gli aderì stretta sul petto per un misto di sudore freddo e caldo insieme.

    “Senti… Possiamo…” – provò poi, riabbassando lo sguardo mentre cercava le parole giuste da dire. Sospirò, s’inumidì le labbra e poi rialzò di nuovo la testa. “Esci con me. Una volta. Dammi qualche giorno... Ho questa cosa domani e allenamenti serrati tutta la settimana prossima per la partita contro i Grifondoro." - proseguì, inarcando un sopracciglio con fare ammiccante, ma involontario. Non lo pensò, non in quel momento almeno, ma il cuore gli fece una capriola nel petto... Avrebbe giocato contro la squadra della sua Casa, per la prima volta da quando avevano iniziato a parlarsi - o a litigare, che dir si voglia - e inconsapevolmente l'idea che potesse tifare per lui o guardarlo con un'attenzione che non gli aveva mai rivoltò, lo emozionò.

    "Una possibilità, per capirci meglio. Non ti chiedo altro. Nelle condizioni che decidi tu. Se vuoi parlare, parliamo… Se vuoi urlarmi addosso, mi urli addosso… Poi ti starò lontano, se sarà quello che vorrai.”

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    Per quella che gli sembrò essere un’infinità di tempo si trovò a fissarla negli occhi, in silenzio, mentre la propria mente riprendeva a funzionare e a ragionare sul suo cambio di espressione. Aveva rovinato tutto. Di nuovo. Già le cose con lei erano complicate di suo, ci si metteva pure il suo carattere psicolabile…
    Ma come poteva spiegare ad alta voce che odiava essere toccato senza preavviso? O che odiava essere tempestato di domande? Che la sua non era pazienza, ma finta calma serafica? Che se ne stava per conto proprio perché era più facile evitare delusioni e concentrarsi sugli studi?
    Sentiva lo stomaco contorcersi, perché consapevole di aver fatto un grosso errore. Doveva rimediare subito o avrebbe mandato tutto all’aria.
    Nel momento in cui aveva deciso di dirle ciò che provava si era liberato di un peso, perché era bravo a reprimere qualsiasi emozione, talmente bravo da mentire anche a sé stesso e aveva colto l’attimo di debolezza, quell’istante in cui per via dell’ansia per il provino aveva trovato sollievo in lei e aveva voluto andare fino in fondo.
    Aveva il cuore che gli batteva all’impazzata e si stese per terra, solo un attimo, a riflettere a occhi chiusi e mani sul viso, come a nascondersi dal mondo: doveva fare pace con il proprio cervello. Cosa gli piaceva di lei? A parte tutto ciò che era attribuibile all’attrazione fisica… Quel modo che aveva di scattare sull’attenti e aggredirlo, lo eccitava; non era come le altre ragazze piagnucolose e bisognose. Ma era, forse, attribuibile anche questa caratteristica all’attrazione fisica…
    Aprì gli occhi di scatto. Non aveva tempo. Ci avrebbe pensato a tempo debito. Doveva rimediare con lei e doveva rimediare all’allenamento di quiditch. Le due cose, ormai, sembravano connesse l’una all’altra, perché non avrebbe smesso di pensare a Christelle se avesse lasciato le cose in sospeso ancora una volta e in maniera peggiore rispetto a tutte le altre messe insieme e, di conseguenza, non sarebbe riuscito a concentrarsi sul quidditch, per il quale aveva ritrovato la motivazione e voleva mettercela tutta.
    Si rimise in piedi con un balzo e prese a correre il più velocemente possibile; riusciva ancora a vederla, a metà del lago, ancora distante dai suoi amici. Le aveva detto di voler restare solo e lei se n’era semplicemente andata; non aveva fatto scenate. L’aveva zittita, per la prima volta… il che, la diceva lunga.

    “Non mi piace parlare. Non sono bravo con le persone. Oggi è una giornata di merda più del solito. Sono lunatico e basta poco per mandarmi fuori di testa… Non mi aspettavo quella tua reazione. Non è una giustificazione, è solo per risponderti… Hai detto che non mi capisci, così magari è meglio.” – iniziò a dirle, fermandosi alle sue spalle. Non si azzardò ad avvicinarsi troppo o a toccarla. Aveva il respiro affannato per aver corso duecento metri in troppi pochi secondi e si concesse una breve pausa per riprendere fiato.

    “L’ho capito che ti piaccio. Non sono così stupido. Ma non è strano da capire solo per te, è strano anche per me. Non me l’aspettavo… Credo di avertelo detto oggi perché mi aspettavo un tuo rifiuto e credo di aver pensato che sarebbe stato un sollievo pensare a questo, invece che al provino. E questo è quanto…” – concluse con un filo di voce, posandosi le mani sui fianchi, a testa china, nel vano tentativo di riprendere fiato. Per uno che giocava a calcio – anche se ormai solo d’estate – quella scarsa resistenza all’atletica non gli rendeva particolare onore, ma ne diede la colpa alla tachicardia che lo aveva sorpreso già prima che iniziasse a correre. Quella serie di avventure emotive erano troppo da sopportare per una sola giornata…


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    Colto di sorpresa, si era trovato costretto dalle circostanze a ricambiare l’abbraccio della ragazza, ma il disagio nel farlo – con il braccio destro che a malapena la sfiorava circondandole la vita e il sinistro che, nello stesso modo, le stava però intorno alle spalle, con la manina che in autonomia continuava a darle scarne pacche consolatorie – era talmente palese che quasi si sentì più in imbarazzo per il proprio atteggiamento, incapace e distaccato, che per il suo. Non era bravo nei rapporti sociali, tutt’altro, e se un tipico sedicenne timido e introverso si sentiva impacciato con le ragazze, per lui che aveva quel carattere così schivo e scostante era anche peggio; le ragazze che piangevano, poi, lo mettevano in seria difficoltà. Ma non era colpa sua, della ragazza, insomma.. Una brutta giornata capitava a tutti, no? E ognuno reagiva a modo suo. Nella strada vuota che solitamente brulicava di maghi e streghe, si era trovata davanti quello che aveva creduto essere un volto amico – assurdo da concepire per lui, dato che si erano visti e parlati una sola volta – e si era lasciata andare. Non era colpa sua e lui stava dando troppa importanza a un gesto che per le persone normali era niente di che e sarebbe finito presto.. Continuava a ripeterselo come un mantra nella speranza che, in qualche modo, il proprio atteggiamento non risultasse troppo offensivo e peggiorasse le cose.
    Annuì silenziosamente ai suoi tentativi di fingersi più tranquilla e si accorse di aver quasi trattenuto il respiro nell’attesa della fine di quel momento imbarazzante, quando poi, finalmente, la sentì scostarsi da lui e si permise un sospiro profondo, cercando addirittura il suo sguardo; sperava di riuscire a scusarsi della propria incapacità empatica semplicemente guardandola.

    “Sai, il nucleo in penne di thunderbird crea bacchette molto potenti. Si fanno padroneggiare solo da chi ha un forte intuito…” – prese a dirle, scuotendo la testa e stringendosi le spalle, come a dirle di lasciar perdere. Non era stata invadente nel senso in cui lo erano spesso le ragazze con lui e le sue parole seguenti gli confermarono quell’impressione; aveva avuto un momento di tristezza, per così dire, e aveva sentito l’esigenza di sfogarsi. Tutto qui.
    Non aveva bisogno di scusarsi con lui; quasi gli dispiacque che in un momento del genere avesse incontrato proprio lui. Ma non poteva evitare di sentirsi sollevato di aver riacquistato il proprio spazio vitale e, istintivamente, si distanziò di un paio di passi.

    “Una volta è venuta una ragazzina al primo anno. Super viziata. Non le importava nulla di avere la sua prima bacchetta, perché lei ne aveva già maneggiate diverse della famiglia… Era entrata in negozio con i nonni, mentre i genitori le stavano prendendo un animale al Serraglio. Iniziò a saltare, come a voler buttare giù gli scaffali per vedere e toccare tutte le bacchette per fare prima. E nessuno le diceva niente… Ho passato tre ore infernali, perché nessuna bacchetta la voleva e lei aveva iniziato a urlare dopo i primi dieci minuti, con in sottofondo i nonni che mettevano in dubbio le mie capacità.” – le rispose poi, con sincerità, infilandosi le mani nelle tasche laterali dei pantaloni mentre prese a camminare con lei.

    “Ti fa sentire meglio sapere che non sei l’unica a cui capitano clienti maleducati e ingrati?”


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    La montagna russa di emozioni stava lentamente riprendendo il sopravvento; nel giro di pochi minuti era passato dal depresso, al sollevato, per poi vergere verso la preoccupazione, la risolutezza e fermarsi per un po’ di nuovo sul sollievo. Starle vicino senza pensare alle conseguenze di quelle loro azioni era stato piacevole, soprattutto se – come in quel momento – non gli urlava addosso, ma era tornato a sentirsi nervoso non appena tra di loro si era creato il silenzio. Era durato, a dir tanto, pochi secondi, perché lei aveva ripreso subito la parola e non bastò a nulla notare il cambiamento di espressione sul suo viso o il fatto che si fosse ritrovato con le dita di una mano intrecciate tra le sue, per sua iniziativa; si era chiesto più volte in quelle ultime settimane e, ancor di più, negli ultimi minuti lì con lei come sarebbe stato poter scegliere di farsi piacere Christelle senza causare problemi alla sua famiglia o senza farne scaturire un immenso pettegolezzo ed era arrivato alla conclusione che non gli importava più di quelle cose, voleva che lei sapesse la realtà dei fatti e si era detto che, a prescindere da ciò che ne sarebbe conseguito, si sarebbe sentito meglio.
    Aveva già cambiato idea.
    Forse perché non l’aveva mai vista così mansueta o, più probabile, perché si era aspettato un rifiuto da parte sua, quel minimo contatto tra le loro dita lo aveva reso di nuovo irritato. Non aveva minimamente preso in considerazione l’ipotesi che lei potesse ricambiare, che potesse piacerle, cosa che gli sembrò abbastanza ovvia giudicando il cambio di atteggiamento di Christelle, ed era stato un grave errore… Perché ora che toccava a lui fare i conti con la realtà dei fatti, la cosa non gli piacque affatto.

    “Non lo so… Troppe domande. Ci penso… Te lo dirò.” – le rispose, nel solito modo freddo e scostante che gli usciva spontaneo dalle labbra ogni volta che si sentiva a disagio con le persone… Il suo solito tono di voce, insomma.
    Aveva lentamente allontanato la mano, con discrezione e premura per evitare che potesse fraintendere il movimento, ma sentì l’impellenza di rimpossessarsi del proprio spazio vitale e quella vicinanza cominciava a stargli stretta.
    Fu attraversato da un’ondata di incoerente delusione non appena riportò lo sguardo a terra, nella speranza di tornare a prestare attenzione al gatto che, invece, aveva approfittato della situazione per allontanarsi per fatti suoi. Non si era aspettato tutta quella sfilza di domande, ma avrebbe dovuto, perché lei era fatta così; aveva creduto di non piacerle e ora che stava constatando il contrario, era sicuro che fosse una questione strettamente legata all’attrazione fisica e si sentì in colpa, perché si trovò a mettere in dubbio i propri sentimenti appena confessati, chiedendosi se anche per lui fosse solo una questione fisica; il pensiero del provino di quidditch era tornato terribilmente vivido tra i pensieri e tra le tante cose che avrebbe potuto fare in quel lasso di tempo, di certo parlare non era tra le priorità. Fu come se nel tempo di un battito di ciglia fosse riuscito a rimuovere gli ultimi minuti di beatitudine passati con Christelle, compresi quelli in cui gli aveva fatto completamente dimenticare dell’ansia per il provino; rifiutò di accettarli.
    L’ipotesi di essere amato era irrealistica. E spaventosa.
    Si sfregò il viso tra le mani, emettendo l’ennesimo sospiro.
    Non era abituato ad andare contro i propri sbalzi d’umore, quindi, l’unica cosa che sentiva di poter fare in quel momento per non mandare all’aria quello che era appena successo tra loro – ammesso che fosse effettivamente successo qualcosa, dato che avevano solo parlato – fu di essere sincero, per assecondare l’umore di quell’attimo e sentirsi meglio.
    Rialzò lo sguardo ad incrociare il suo, inclinando appena la testa da un lato, come a voler osservare meglio i lineamenti del suo viso; non riusciva più a capire la sua espressione o, semplicemente - visto che era ai limiti della follia essere così lunatici - era plausibile credere che non gli interessasse in quel momento sapere cosa le frullasse per la testa. Non seppe dire nemmeno con che espressione sul proprio viso riportò l’attenzione su di lei.

    “Senti, domani ho un provino per entrare come portiere di quidditch nella Lega professionista. Non dirlo a nessuno. però… Non voglio che si sappia. Credo di dover stare da solo per un po’, adesso...”


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    Non ricordava il suo nome, ma ricordava di lei un carattere socievole ed espansivo, particolarmente opposto al proprio, che in una situazione com’era stata quella a Il Ghirigoro, per via dell’evento e del fatto che fossero circondati da persone – e che l’idea di parlare con tutte loro lo aveva fatto sentire più a disagio dell’idea di restare fermo nei pressi di quella poltroncina a più o meno conversare educatamente con lei – non era stato troppo difficile da gestire. Era americana, lo aveva riconosciuto subito dall’accento e dimostravano più o meno la stessa età – nonostante la propria altezza, spesso, avesse tratto in inganno – ed era una maga di Ilvermorny, la scuola in cui aveva passato quelli che alla fine dei conti erano stati solo dei giorni di vacanza. Forse, perché aveva un brutto rapporto con la burrobirra e doveva averne bevuta parecchia all’evento de Il Ghirigoro o, forse, perché distratto dalle circostanze non le aveva davvero prestato attenzione, ma col senno di poi, nel ritrovarsela vicina, la prima cosa a cui pensò fu la curiosità accademica: com’era studiare in quella scuola?
    Ma quando la ragazza si fu più o meno ripresa e il Serpeverde finalmente potè far scivolare via le mani dalle sue spalle, si ridestò dal filo dei propri pensieri.

    “No, lavoro qui.” – iniziò a dirle, indicando il negozio di Ollivander, forse anche intenzionato a parlarle del lavoro, in una classica situazione in cui le conversazione di circostanza – che lui odiava – potevano accorciare senza imbarazzi quel tipo di incontri casuali. Addirittura s’incuriosì nel sentirla dire che lavorava da Accessori per Quidditch di Qualità, che insieme a Il Ghirigoro, ma differentemente da esso, era tra i suoi negozi preferiti… e che evitava come se entrare lì facesse venire il vaiolo di drago perché non poteva permettersi di comprare nessuno di quegli accessori e la tentazione di volerli, tipo, tutti era troppo forte.
    Di nuovo, perso nei propri pensieri, perse di conseguenza l’opportunità di dirle qualcosa a riguardo; anche il Quidditch avrebbe potuto essere un ottimo argomento di conversazione da circostanza… Ma lei iniziò a piangere. All’improvviso. Senza nessun segnale di avvertimento. Non era una persona particolarmente empatica, tutt’altro – decisamente egocentrica - e ciò a cui stava assistendo contro la propria volontà era proprio una di quelle situazioni che rimarcavano dentro di lui il bisogno quasi necessario, indispensabile, di essere asociale.
    Per tutti i peli di Merlino, avrebbero sproloquiato i maghi… Che cavolo doveva fare?
    Rimase rigido quando lo abbracciò e, ad essere onesti, si sentì decisamente a disagio per quel contatto fisico – considerato tra i più intimi, per lui; si limitò ad ascoltarla, seppur distrattamente mentre cercava di pensare a un diversivo o a qualcosa, qualsiasi cosa che facesse sentire meglio la ragazza così da riacquistare in maniera educata il proprio spazio vitale.

    “Ehm… Maaa-ad…eline?! Ti chiami Madeline, vero? Senti… Perché non facciamo un giro? Magari l’aria fresca ti rimetterà di buon umore…?” – tremendamente in imbarazzo, ma con un tono di voce fermo e convincente, nonostante l’incertezza sul suo nome e del cosa farle fare per evitare un altro contatto non richiesto, abbassò lo sguardo a cercare il suo, mentre con la mano sinistra aveva iniziato una specie di pat-pat molto delicato e ritmico sulla sua schiena.
    La fine camicia bianca che indossava, adornata della sola cravatta verde-argento, non dava spazio all’immaginazione: le lacrime della ragazza ne avevano attraversato il tessuto, quindi, per evitare che la situazione peggiorasse doveva pensare in fretta a qualcosa.


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